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«È normale che ci sia un gap tra i profili richiesti dalle aziende, sempre più orientate verso l’Industria 4.0, e le competenze disponibili. L’industria 4.0 offre delle tecnologie per cui si ridisegnano i processi di lavoro». Paola Fantini, specialista Jobs&Skills 4.0 dell’Osservatorio Industria 4.0 del Politecnico di Milano, non si dimostra sorpresa ma, anzi, ottimista. «Molte competenze cambiano e richiedono capacità ampliate e riviste alla luce delle nuove tecnologie rispetto al lavoro e ai suoi obiettivi. Anche se è da molto che si parla di industria 4.0, la trasformazione è iniziata da poco e si sta diffondendo a macchia di leopardo. Questo perché le aziende valutano attentamente gli investimenti e quindi cominciano a trasformare là dove vedono un ritorno immediato».

È stato detto più volte, in diverse sedi, che in Italia mancano le competenze, una visione innovativa della gestione aziendale da parte del management e che nel complesso il nostro paese è in ritardo sull’integrazione della tecnologia nel tessuto socio-industriale, con una popolazione fra le più anziane d’Europa e una scarsa fiducia nella tecnologia. Un quadro desolante. Ma non è del tutto così. O meglio: se da una parte è vero che stiamo ricorrendo realtà più avanzate in materia, dall’altra però dei grossi progressi sono stati fatti.

Secondo un recente studio condotto dal Politecnico di Milano, l’Industria 4.0 italiana cresce e con essa la consapevolezza sia delle singole smart technologies che del loro effettivo impiego. Il mercato dei progetti di Industria 4.0 ha toccato nel 2017 un livello compreso tra i 2,3 e i 2,4 miliardi di euro, di cui l’84% realizzato verso imprese italiane, il resto come export, con una crescita complessiva del 30% rispetto al 2016. Cresce anche la conoscenza del tema Industria 4.0, tanto che solo il 2,5% delle imprese non sa cosa sia, mentre il 55% ha realizzato soluzioni 4.0. In media, ogni impresa ha adottato 3,7 applicazioni, soprattutto IoT e Analytics. In questo contesto, il Piano nazionale Industria 4.0 2017-2020 sta avendo un fortissimo impatto. Concepito per fornire supporto all’industria italiana, il Piano prevede investimenti innovativi, infrastrutture abilitanti e awareness e governance. Secondo la ricerca, il livello di conoscenza del Piano è cresciuto rispetto al 2017, tra l’84% e il 92%, e che gli incentivi messi a disposizione sono stati accolti con successo alle imprese.

Un quadro, quindi, più confortante. Al quale però deve corrispondere una trasformazione anche in ambito “Jobs e Skills”. C’è chi sostiene che il problema derivi dalle scarse iscrizioni a facoltà scientifiche privilegiando quelle umanistiche, e da un sistema formativo che poco risponde alle esigenze delle imprese. «Alcune scuole hanno progetti di ascolto delle imprese per capire le loro necessità al fine di definire dei profili in uscita da questi istituti. Università e master cominciano a collaborare con imprese o con altre atenei proponendo corsi che colmino questo gap». E la rivalità tra studi scientifici e umanistici? «Bisogna puntare sulla capacità di attrarre gli studenti in mondi “tecnici”, lasciando loro la libertà di scegliere. Non demonizzerei la cultura umanistica. È dal dialogo tra discipline che bisogna partire per ottenere competenze ibride: l’ingegnere gestionale è una di queste figure nata dal connubio tra discipline ingegneristiche ed economia del management. È un po’ il risultato del dialogo fra mondi apparentemente lontani».

Ciò è ancora più vero se si considera l’ultima proiezione del Wef sul mondo del lavoro secondo cui nel 2022, tra le 10 professioni più richieste, comparirà il “New Technology Specialist”. Una figura ibrida, appunto, orizzontale, non strettamente legata alla tecnologia ma che ne comprenda le potenzialità e le sappia applicare con efficacia al business.

Aldilà dei provvedimenti che si stanno prendendo, non bisogna dimenticare la persona. «Credo molto nel fattore umano nell’impresa ed è importante che ci sia un coinvolgimento delle persone con un supporto psicologico, sociologico e pedagogico, collaborando con l’AI o con un robot. È necessaria una stretta collaborazione a tanti livelli, da quello politico, istituzionale a quello della ricerca».